Perché quando si fa una psicoterapia si parla sempre dei propri genitori?

Siamo predisposti, sin dalla nascita, a partecipare alla matrice intersoggettiva, a fare esperienza degli altri come se ci trovassimo nella loro stessa pelle; le nostre stesse menti non sono isolate e separate, ma frutto di un dialogo continuo che inizia fin dai primi mesi di vita. Questa è la nostra condizione di umanità.

Le presenze interiorizzate dei nostri genitori e gli schemi mentali che ne derivano ci hanno permesso di inserirci nella storicità della nostra cultura, sono state il nostro fondamento senza il quale non avremmo potuto vivere.

Noi pensiamo, sentiamo senza necessariamente riconoscere l’influenza delle esperienze passate sulla nostra realtà presente, ma esse rappresentano le nostre istituzioni interne, i codici istituiti. Se vogliamo andare avanti dobbiamo poter pensare di essere appartenuti a qualcuno, di poter dipendere da qualcosa. In mancanza di un senso comune non si potrebbe dare un senso originale o, detto in altri termini, in mancanza di una “formazione” non potrebbe darsi alcuna trasformazione.

Negare l’esistenza di un fondamento, azzerare le differenze tra un prima e un dopo, tra un genitore e un bambino, tra chi inizia e chi può disporre della propria esperienza, dimettersi dal proprio ruolo di genitori, negare le responsabilità che competono non permette di creare quello spazio facilitante e rassicurante in cui possa aver luogo l’esperienza formativa e affettiva della crescita.

I genitori, le regole, i maestri, svolgono una funzione vitale, nella consapevolezza però che tutto il sistema prescrittivo trasmesso debba essere incessantemente rivisitato dall’esperienza, per trasformarsi e costituire non un punto di arrivo, oltre il quale non può esserci altro, ma un punto di partenza.

Il sapere del genitore è funzionale e indispensabile alla crescita del bambino, così come il girello può essere utile per imparare a camminare. Ma il girello può diventare una costrizione e creare dipendenza, se il bambino non potrà sperimentarsi da solo, accettando il rischio di cadere.

La conoscenza che i genitori predispongono nei confronti del figlio immaturo può trasformarsi in dominio diffuso anche di quelle parti non sanzionate da alcun bisogno, costruendo talvolta un sistema relazionale e educativo fondato spesso su intenzionamenti troppo “pieni di memoria e di desiderio” che “adescano” l’altro con prospettive allettanti o minacciose.

Tali messaggi, che i genitori inviano spesso inconsapevolmente ai propri figli, occultano la necessità di autoconfermare se stessi attraverso l’educazione del figlio.

Ciò che viene negato infatti, attraverso di essi, è la componente autonoma del figlio vissuta come minaccia della sopravvivenza stessa del ruolo del genitore.

L’angoscia di castrazione che giustamente la psicoanalisi pone nel cuore di ogni crisi di crescita è dunque primariamente l’angoscia del genitore che deve fare i conti con il progressivo distacco del figlio, con il suo bisogno di farsi spazio, di lottare per la propria emancipazione.

Se la relazione con le persone da cui dipendiamo e amiamo è disturbata da un eccesso di sofferenza, se l’ambiente non è facilitante, se il bambino è totalmente posseduto dal genitore con la propria eredità morale o se viene dimenticato e trascurato, se il desiderio di sperimentazione non è sostenuto in modo partecipato, ogni movimento di autoaffermazione e ogni libera espressività del bambino ne risulterà inibita.

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